Dove sei stato o mio bell'Alpino?

 

Russia '43 - '46

PRIGIONIERO

Scampato all'inferno della ritirata e al famigerato lager di Tambow nel quale su 20.000 prigionieri ne sopravvissero solo 1.000. Guido Gamberini, nato a Monghidoro il 6 gennaio 1922, muratore proveniente da famiglia contadina. E' Capogruppo Alpini di Monghidoro dal 1970.

Nel 1938 la Germania aveva chiesto all'Italia braccianti stagionali da impiegare nell'agricoltura, per rimpiazzare i suoi uomini in armi.

A Monghidoro non c'erano molte occasioni di lavoro e così ero partito anch'io. E' là che mi arriva la cartolina precetto. Siamo nel '40 quando rientro in Italia. Inizio il servizio militare a Levico all' 11° della Pusteria, poi passo all'8° della Julia al Btg. Tolmezzo con il quale partecipo al rastrellamento dei ribelli in Val d'Isonzo e Val Natisone.

Il 2 gennaio '43 partiamo per la Russia in treno. Siamo di complemento alla Julia, la quale rientrata con pochi superstiti dalla campagna di Grecia, era poi stata nuovamente ricostituita, e nell'agosto '42 già i primi scaglioni eran partiti per la Russia. Noi arriviamo il 13 gennaio del '43, quando già i russi hanno rotto il fronte e quindi giusto in tempo per patire i tormenti della ritirata e della prigionia. I russi prima avevano sfondato sul fronte tenuto dai rumeni, poi su quello tedesco e così il Corp d'Armata Alpino, in posizione più arretrata era rimasto accerchiato. Quando arriva il mio battaglione che deve dare il cambio a quelli della prima linea, è già iniziato l'accerchiamento e così ancor prima di poter raggiungere le posizioni assegnateci, ci viene comandato di ripiegare. Non tutti riusciamo a tenere il passo della colonna. Ci si frantuma in tanti gruppetti che poi proseguono a caso.

Credo di essere rimasto nella sacca per circa un mese. Ricordo di essermi aggregato alla Tridentina con la quale ho partecipato ad una accanita battaglia nell' attraversare un paese in cima ad una collinetta. Ma per noi era dura. Eravamo armati del '91 a 6 colpi, mentre i russi avevano il parabellum con 30-40 colpi nel caricatore. E poi durante la ritirata non c'era niente da mangiare in quanto i tedeschi, che ci precedevano, bruciavano tutto e allora ci si doveva arrangiare. Una volta, dopo aver macellato una mucca trovata in un paese, ciascuno di noi si preparava a cuocere il suo pezzetto di carne nella gavetta. Verso sera ci attaccano i partigiani e così siamo dovuti scappare di corsa senza aver mangiato nulla.

Nei paesi eravamo attaccati dai partigiani mentre in campagna ci aspettava l'esercito russo. Sapevamo che i contadini russi costruivano dei nascondigli sotto i letamai per conservare cibo come cavoli, miele, patate. Un giorno che eravamo in sette, fra cui l'amico Alberto Caramalli di Monghidor classe 22, decidiamo di scavare sotto una letamaia e alla fine, fortunatamente, troviamo questa specie di dispensa. Tutt'intorno era in corso un furioso bombardamento. Avevamo una gran fame. Un alpino originario di Pianoro, tale Zanarini dice: "Vado via. Non voglio morire qua dentro". E io: "Io resto qui e mangio. Se devo morire, non voglio morire di fame". In tre siamo restati e in quattro sono partiti. Di questi, due sono riusciti a tornare a casa, fra cui Zanarini.

Probabilmente, scampati al bombardamento, furono poi fra i primi ad essere rimpatriati. Avevo detto alla mia povera mamma che ero assieme a questo alpino e quindi, saputo che era ritornato, lei si era recata a Pianoro per chiedergli mie notizie: "Mio figlio dove lo hai lasciato?" "L'ho lasciato là, in un buco sotto terra. Sarà senz'altro morto là dentro perchè c'era un bombardamento molto massiccio ed è facile che una cannonata l'abbia colpito".

Invece noi, usciti da quella dispensa, avevamo vagato per circa un mese nella campagna russa e successivamente, caduto prigioniero dei russi, marciato a lungo prima di raggiungere il campo di prigionia.

Della popolazione russa posso dire solo bene. Ho incontrato delle donne bravissime che durante la ritirata se potevano darti un pezzo di pane, te lo allungavano, e questo anche nei primi tempi che eravamo prigionieri. Alla sera si cercava sempre di arrivare in un paese per riposare e dormire un poco.

Una volta, durante la ritirata, siamo entrati in tre in un'isba. Ci ha accolto una vecchietta che ci ha dato da mangiare, asciugato i vestiti e fatti dormire al suo posto, al caldo della stufa. Lei aveva voluto dormire per terra. Noi italiani ci trattavano abbastanza bene. I tedeschi si comportavano troppo male. Se un partigiano ammazzava un tedesco, loro ammazzavano 10-20 civili. I tedeschi erano crudeli anche con noi perchè se ci trovavano dentro un'isba, ci cacciavano fuori per entrare loro. Una sera che eravamo proprio nelle vicinanze di Nikolajewka ci trovavamo in una quindicina di alpini dentro una casa. Arriva un gruppo di tedeschi in camion e ci fa cenno di uscire. C'era con noi un artigliere bergamasco grande e grosso. Era un "vecio" che aveva fatto anche la campagna di Grecia. Afferra il fucile per la canna e fa l'atto di bastonarli. Quella volta sono loro ad uscire in fretta. Durante la ritirata, quando qualcuno di noi cercava di aggrapparsi alla sponda di un camion tedesco, loro erano capaci di tagliargli le dita con la baionetta. Erano molto egoisti.

Ricordo che nei primi tempi della ritirata ero assieme al mio amico Zarantonello, uno del nord-Italia, pure lui della Julia.

Una sera abbiamo dovuto dormire fuori e io, come sempre, mi sono levato gli scarponi e avvolto i piedi nella pelliccia del cappotto. Mi aveva insegnato di fare in questo modo un alpino che era arrivato sul fronte russo prima di me. Mi aveva spiegato che il corpo sopportava meglio il freddo, mentre le parti più a rischio erano le mani, i piedi, il naso. Camminando i piedi sudano e quindi le calze si bagnano. Se uno ha la possibilità di cambiarle può dormire anche con gli scarponi, in caso contrario è meglio toglierli se no di notte il sudore si gela e quindi si congelano anche i piedi col pericolo di andare in cancrena. Spiego tutto questo a Zarantonello, ma lui mi risponde che preferisce tenere gli scarponi perchè se di notte arrivano i partigiani fa prima a scappare. Purtroppo la mattina dopo si ritrova i piedi congelati. Per due giorni sono riuscito a trascinarlo, ma poi non ce l'ho più fatta, e così l'ho lasciato in un'isba dove si erano rifugiati altri congelati. Non ho più avuto notizie di lui.

Proseguendo nella ritirata, un giorno mi aggrego ad un gruppo di militari di varia nazionalità. Poco dopo ci arrivano addosso tre carri armati russi. Scappiamo da tutte le parti e in una quindicina ci nascondiamo sotto un ponte. Allontanatisi i carri, riprendiamo la nostra strad. Siamo 6-7 italiani, 8-9 tedeschi e un rumeno. Ci incamminiamo per rintracciare gli altri, quand'ecco che improvvisamente i carri ritornano.

Sento vicinissimo il sibilio delle pallottole. I carri armati russi mi stanno sparando addosso. Abbandono il fucile, mi butto a terra e alzo le braccia. Smettono di sparare. Ci arrendiamo tutti per non farci ammazzare. Li raggiungo e fra tanti prigionieri ne riconosco molti che avevano fatto in precedenza la ritirata con me. Siamo a fine febbraio '43. Un tedesco cerca di scappare buttandosi per una scarpata. Da un carro scendono in tre. Anche se tra casco e abbigliamento è difficile distinguere, due di loro sono sicuramente donne. Convincono il fuggitivo a ritornare, poi ci chiedono le nostre generalità. Formano due file. Da una parte gli italiani, di fronte i tedeschi e il rumeno.

Guido Gamberini Guido Gamberini alla vigilia della partenza per la Russia.
Ci fanno voltare le spalle, parlottano un po', sento armare un parabellum e partire una raffica. I corpi dei tedeschi e del rumeno rotolano per la scarpata. "Adesso tocca a noi" bisbiglio al mio vicino, un meridionale. Ci fanno girare e una donna dice "Italianzy buono, niente" e ci indica la strada da seguire per raggiungere la colonna dei prigionieri (1).

I tedeschi si erano macchiati di tremendi delitti come sparare a dei bambini lanciati per aria, e quindi quando i russi li catturavano, gliela facevano pagare cara. Comunque quella volta anch' io passai una bella paura. Anche se poi, a lungo andare, non ci si preoccupava più di tanto di sopravvivere. Si campava alla giornata aspettando la morte. Si vedevano morire gli amici, non si avevano notizie da casa, anzi i miei mi avevano già dato per morto sotto la letamaia e recitavano il rosario in mio suffragio. Si era sbandati, ci si sentiva impotenti nei confronti dei feriti e dei congelati che non si potevano soccorrere in alcun modo. Si aspettava la morte come una liberazione da tutte le sofferenze. E così anch'io, un giorno che ero rimasto solo, nel pieno della disperazione, avevo deciso di lasciarmi morire. Ero capitato in un magazzino dove era stivato del miglio. Mi ero sdraiato in quel locale dicendomi. "Questa sarà la mia tomba. Resto qui a morire di fame". Forse poi avevo dormito un po', fatto sta che dopo essermi riposato avevo cambiato ides. "Eh no - mi ero detto - qua non resto". E così avevo ripreso a seguire le tracce sulla neve.

Mi aggrego quindi alla lunga colonna di prigionieri e dopo una marcia interminabile arriviamo nel mezzo di una boscaglia dove a lato della strada c'è una lunghissima fila di basse capanne, coperte di terra e di muschio, simili a quelle una volta usate dai nostri carbonai. Al loro interno solo un po' di paglia e per ogni capanna siamo talmente fitti che possiamo restare solo a sedere. Impossibile sdraiarsi. Italiani, rumeni, ungheresi, tedeschi, slavi restiamo lì per circa un mese. Quando arriva la slitta col mangiare viene letteralmente assaltata da quelli delle prime capanne e così per gli altri spesso resta poco o niente. Ogni tanto ci danno un pezzo di pane. E' lì che ho cominciato ad andare in cerca di ossa. Le rompo, le metto un po' sul fuoco e mangio la parte interna.

Completato lo smistamento dei prigionieri, io sono destinato al campo di Tambov, baracca n° 9. Ho saputo poi in seguito che in un'altra baracca di quel campo era stato internato anche don Enelio Franzoni, Medaglia d'Oro al V. M.

Siamo in massima parte italiani, moltissimi infetti da tifo petecchiale. Poichè di salute sto abbastanza bene, ho l'incarico di dissetare gli ammalati di tifo che soffrono di febbri altissime. Ho una gran paura di restare infettato. A curare gli ammalati ci sono delle dottoresse russe aiutate da medici italiani prigionieri.

Tutte le mattine vengono raccolti i morti a decine. I corpi, già irrigiditi dal gelo, sono accatastati come tanti pezzi di legna all'interno di lunghe fosse, che vengono poi ricoperte. Se all'arrivo al campo tutti i prigionieri sono schedati, non credo che poi si segnino i nomi dei morti.

Anche il mio amico Alberto Caramalli, col quale avevo fatto insieme il trasferimento in treno fino a Tambov, all'arrivo era stato visitato da una dottoressa perchè aveva le gambe molto gonfie. Ricoverato all'ospedale, non ne avevo poi saputo più nulla. Sempre a Tambov sono frequenti i casi di cannibalismo, e anche se non ho personalmente mai visto nessuno cibarsi di carne umana, ho notato troppe volte come a tanti dei cadaveri raccolti la mattina, fosse stato tagliato il muscolo della coscia. Ho già detto che io mangiavo le poche ossa che trovavo, cotte un po' sul fuoco. Non ho mai indagato che tipo di ossa fossero: la fame è fame!

Il lager di Tambov
Il lager di Tambov in un disegno del 1946 eseguito da Giuseppe Rossi.


Dopo due o tre mesi mi ammalo anch'io. Soffro di diarrea, sono pieno di pidocchi e peso solo 38 chili. Come tutti gli altri ammalati vengo caricato su di un treno con destinazione la Siberia.

Non ricordo la durata del viaggio perchè causa la febbre ero in uno stato confusionale. Ricordo solo che come cura, durante il giorno, mi applicavano dei bicchierotti, una specie di ventosa, sulla schiena e sul petto e la pelle veniva come risucchiata all'interno. Questa cura dura per una ventina di giorni, ma poi comincio a stare meglio. I nostri letti sono sistemati in una sala cinematografica e spesso arriva un fiorentino a chiederci come stiamo. E' un fuoriuscito, un rifugiato politico fuggito dall'Italia che parla molto bene anche il russo. Ogni volta ci illustra come il fronte degli alleati stia avanzando in Italia, e così imparo anche quando gli americani liberano Monghidoro. Dopo l'ennesima visita medica veniamo assegnati alle varie categorie.

Io finisco nella prima dove sono quelli che stanno meglio e quindi addetti ai lavori più pesanti. Vengo quindi trasferito in Turkestan, parte della Russia meridionale fra Afganistan e Cina, a raccogliere il cotone. Il viaggio in treno sulla linea transiberiana è lunghissimo. Sui carri bestiame avevano sistemato delle specie di panchine e nessuno aveva un' idea di dove ci stressero mandando. Arriviamo dopo moltissimi giorni e vengo assegnato alla baracca n° 14. In questa regione fa caldo tutto l'anno. Se copri un uovo con la sabbia, si cuoce. Poi in autunno c'è la stagione delle grandi piogge. Arrivo a destinazione verso la fine dell'estate e vi rimarrò per circa tre anni. In tal modo la mia prigionia si protrae per quattro anni.

Ho già detto che il mio lavoro è raccogliere il cotone. Il capocampo è un romano e la nostra razione del mattino comprende zucchero, burro e pane. A noi dà solo il pane, il resto chissà a chi lo rivende. Lavoriamo otto ore al giorno e alle 18 circa si rientra. Noi prigionieri siamo divisi in tre categorie. Chi è nella prima va a raccogliere il cotone, la seconda provvede alla legna per la cucina, la terza pulisce il campo. Chi è classificato distrofico viene ricoverato all'ospedale, come poi è successo a me. Quella zona è tutta pianeggiante e l'acqua per l'irrigazione, limpidissima, arriva tramite un canale largo 10 metri e profondo 2 o 3 metri, che parte direttamente da un ghiacciaio della catena dell' Himalaya, ben visibile a occhio nudo. Ricordo anche che in quella zona crescevano dei cocomeri enormi, dalla forma allungata. Trascorrono 4 mesi e una mattina, prima di andare al lavoro, passa la visita medica. Una dottoressa mi dà un pizzicotto nel sedere tirandomi la pelle, poi dice: "E' distrofico, bisogna ricoverarlo all' ospedale". Vengo ricoverato a Taskent, una bella cittadina non troppo distante dal campo. Li conosco un ex della folgore, un maremmano ricoverato da circa sei mesi, non ricordo bene per cosa. Dopo due mesi mi rimandano al campo assegnandomi alla baracca n° 9. In totale vi erano 22 baracche ognuna con un centinaio di prigionieri. Poi c'erano le cucine, i bagni ecc. Tutto è ben organizzato. Nella mia baracca vi sono pochi alpini. In massima parte sono fanti di Torino che vanno a lavorare da muratore nel paese vicino. Un altro capo campo, un vicentino, mi chiede: " Tu Gamberini vuoi andare con quella squadra a lavorare da muratore? Sei capace?". Rispondo di sì, anche se non so fare quasi niente. Per un po' ero stato manovale, ma piuttosto che raccogliere il cotone preferisco andare in paese. E così rimango aggregato a questo gruppo fino alla mia liberazione.

Anche in questo lavoro il turno è di 8 ore, ma nessuno ci fa fretta.

Un giorno che stiamo completando il tetto di una casa arriva una guardia russa: "Italiani giù, che andate a casa". Abbandoniamo sul posto tutti gli arnesi da lavoro e raccolti quei due stracci di vestiti che abbiamo raggiungiamo la stazione dove già ci aspetta il treno. Il viaggio di ritorno è lunghissimo, anche perchè non abbiamo alcun riferimento. Solo quando cominciamo ad attraversare le zone dove c'era stata la guerra e si vedono ancora case bombardate e rottami di armamenti, siamo certi che stiamo tornando. Quel viaggio, pur interrotto da tante soste continua per un mese. Arriviamo nel novembre '46 e siamo consegnati agli americani. Ci alloggiano in un grande capannone di legno con letti a castello alti a 5 posti. La notte sento un gran frastuono e allora mi rifugio in un angolo. Alla mattina imparo che un castello è crollato e che due soldati sono morti. Che destino, aver tribolato tanto per poi morire in quel modo. Sempre in treno veniamo immediatamente trasferiti a Verona da dove si ripartirà per le varie destinazioni. Là vi è un attendamento della Croce Rossa. Mi danno da mangiare e 700 lire. Una discreta sommetta per quei tempi.

Conosco altri due militari che devono rientrare a Bologna e decidiamo di spendere tutti quei soldi in trattoria. Abbiamo una gran voglia di mangiare cibi della nostra terra e se avessimo avuto più soldi mangeremmo fino a scoppiare. Arrivato a Bologna, raggiungo mia sorella che è a servizio presso il Prof. Borelli, del quale la mia famiglia lavorava un podere. Il professore è in casa e siccome mi sento addosso un gran prurito, mi visita. Dice che ho la scabbia e mi convince a farmi ricoverare per 2 - 3 settimane al S. Orsola dove lavora anche il figlio. In tal modo avrei creato meno problemi ai miei familiari.

Divido la mia camera assieme ad un vecchietto. Arriva mia mamma e mi porta da mangiare, e vengono a trovarmi parenti e amici e mi portano da magiare. Non rifiuto niente. Un bel giorno quel vecchietto esclama: "Ma quello là invece di dormire, mangia tutta la notte. Io non lo so se dura!".

Avevo troppa voglia di mangiare di casa mia! Durante i 4 anni di prigionia ero quasi sempre stato di prima categoria col solito rancio: pane e zuppa di verdure, con aggiunta a volte di carne e pesce.
Capisco anche di essere stato fortunato, perchè altri sono stati molto peggio.
In 4 anni di prigionia non ho mai potuto scrivere a casa, nè ricevere posta, mai visto nessuno della Croce Rossa e quindi ci è stato sempre impossibile fare avere nostre notizie. Come ho gi detto i miei familiari erano convinti che fossi morto sotto la letamaia durante il bombardamento. E invece sono fra i pochi fortunati che oggi possono raccontare ai più giovani questa triste avventura, finita bene.

(1) Un episodio analogo è riportato nell'opera Alpini Storia e Leggenda, Rizzoli Ed. 1982, vol. III pag. 909. da "L'Alpino Imolese" n° 2/1995